lunedì 9 ottobre 2017

Frank Zappa & the Mothers of Invention Freak out!


Frank Zappa nasce il 21 dicembre del 1940 a Baltimora, nel Maryland, da genitori di sangue italiano e francese.
Trasferitosi con la famiglia in California, a 12 anni inizia a interessarsi alle percussioni e nel 1956 suona già la batteria in un gruppo chiamato Ramblers. La sua educazione musicale giovanile, tuttavia, va molto oltre il canonico interesse per il rock’n’roll e il rhythm&blues (anche se sono Howlin’ Wolf, Muddy Waters, Johnny “Guitar” Watson e Clarence “Gatemouth” Brown ad accendergli la passione per la chitarra elettrica): il giovane Frank, infatti, coltiva grande interesse anche per la musica orchestrale, per le colonne sonore e per le composizioni d’avanguardia di Edgar Varèse.
Dopo un oscuro apprendistato come autore di canzoni e arrangiatore (e qualche 45 giri a suo nome finito subito nel dimenticatoio), nel 1964 fonda le Mothers Of Invention (con Ray Collins, Jim Black, Roy Estrada e Elliot Ingber): il primo disco della band, FREAK OUT!, esce due anni dopo lasciando a bocca aperta per la fantasiosa e anarchica mescolanza di rock, psichedelia, sperimentazione, doo wop, music hall e gag iconoclaste.
Anche i successivi dischi per la Verve sono un fuoco di artificio di creatività: ABSOLUTELY FREE (con la celebre “The duke of prunes”), WE’RE ONLY IN IT FOR THE MONEY (che mette alla berlina la controcultura e il “Sgt. Pepper” beatlesiano) e LUMPY GRAVY (con la partecipazione di una grande orchestra) ne confermano il talento incontenibile, enciclopedico, bizzarro e irriverente, alternando musica concreta a canzoncine apparentemente stupide, rumorismo beffardo a testi senza peli sulla lingua, scurrili, sarcastici, polemici e spesso a sfondo sessuale (i bersagli preferiti degli strali umoristici di Zappa, nell’arco di tutta la carriera, saranno i moralisti, gli integralisti religiosi, i politici e certa “American way of life”).
Dopo un nostalgico e divertito omaggio doo-wop pubblicato a nome degli “alter ego” Ruben and the Jets si consuma l’inevitabile divorzio dalla Verve e Zappa, in società con il manager Herb Cohen, fonda una propria etichetta che reca l’appropriato nome di Bizarre: è il momento dei dischi più ammirati e maturi del catalogo, con le ardite fusioni jazz rock di UNCLE MEAT e del capolavoro HOT RATS, il primo album senza le Mothers con cinque brani strumentali, una nuova band in cui spiccano lo straordinario violino di Jean-Luc Ponty e un cameo vocale dell’amico Captain Beefheart.
Di lì in poi, complice anche la libertà artistica finalmente conquistata, la discografia di Zappa inizia a frastagliarsi in una galassia di uscite che documentano una creatività sfrenata, affiancando alla produzione “ufficiale” pezzi e frammenti lasciati per strada e successivamente recuperati.
Cambiano spesso anche i compagni di ventura: gli ex Turtles Mark Volman e Howard Kaylan (che esordiscono in CHUNGA’S REVENGE) lo convincono momentaneamente (e con grande disappunto dei fan storici) a privilegiare il lato più leggero, canzonettistico e umoristico del suo repertorio; Ringo Starr fa una comparsa nel film 200 MOTELS (dove interpreta lo stesso Zappa) e nella relativa colonna sonora orchestrale. Dopo avere collaborato con John Lennon e Yoko Ono (nel concerto del giugno 1972 al Fillmore East documentato nell’album “Sometime in New York City”), il musicista italoamericano torna al jazz rock con WAKA/JAWAKA e THE GRAND WAZOO (con George Duke e Aynsley Dunbar a rinforzare la line-up). Poi, siglato un accordo con la Warner Bros, incassa con APOSTROPHE (‘), nel 1974, l’unico disco d’oro e da Top Ten in carriera (il brano trainante della raccolta è “Don’t eat the yellow snow”). Nel 1975, per un tour immortalato dal live BONGO FURY, si riunisce a lui Captain Beefheart, mentre l’anno successivo, con ZOOT ALLURES, esordisce una nuova formazione che include tra gli altri il nuovo batterista Terry Bozzio.
Malgrado le beghe legali che lo oppongono alla Warner, è un altro momento di grande slancio creativo: SHEIK YERBOUTI, nel 1979, è una delle sue opere più godibili ed effervescenti, con un altro 45 giri di buon successo, “Dancin’ fool”; il brano “Jewish princess” ne conferma però lo status di personaggio politicamente scorretto scatenando le ire della comunità ebraica. Poco dopo, i tre atti del “musical” JOE’S GARAGE ribadiscono la sua verve e l’abilità nello sberleffo.
Mentre i fan si deliziano con una serie di raccolte che montano assieme alcuni dei suoi migliori assoli di chitarra (Zappa è un “guitar hero” sui generis, e ama circondarsi di altri grandi talenti dello strumento come Adrian Belew, Steve Vai e Warren Cuccurullo), l’imprevedibile artista continua a mischiare le carte in tavola e nel 1982 strappa una imprevista hit grazie a “Valley Girl”, beffardo e scanzonato ritratto di ragazza californiana registrato assieme alla figlia Moon Unit (il singolo è incluso nell’album SHIP ARRIVING TOO LATE TO SAVE A DROWNING WITCH). Subito dopo, con uno di quei salti mortali che gli sono caratteristici, si rituffa nel suo grande amore, la musica colta ed orchestrale, collaborando prima con Kent Nagano e poi con Pierre Boulez, chiamato a dirigere una sua composizione intitolata THE PERFECT STRANGER.
Dopo un curioso esperimento di musica elettronica-barocca (FRANCESCO ZAPPA, ispirato alle composizioni di un omonimo musicista milanese del XVIII secolo), in THEM OR US fa esordire a suo fianco il figlio Dweezil, lui pure virtuoso della chitarra; JAZZ FROM HELL (1986) vede invece Frank cimentarsi in solitaria e destreggiarsi al sintetizzatore Synclavier. Mentre si dedica al recupero di nastri live ricavati dal suo sterminato archivio (con la serie YOU CAN’T DO THAT ON STAGE ANYMORE), Zappa progetta un ultimo colpo di scena memorabile: THE YELLOW SHARK, splendido live in bilico tra pagine storiche e nuove composizioni inciso con l’aiuto di una formazione tedesca di musica classica e contemporanea, l’Ensemble Modern.
A quel punto Zappa è già malato e sofferente per un tumore alla prostata che lo costringe a sedute di chemioterapia; la morte lo coglie il 4 dicembre 1993, mentre sta lavorando a un nuovo progetto, CIVILIZATION PHAZE III, basato in parte sul recupero di nastri risalenti alle sessions dell’antico LUMPY GRAVY.
Dopo la sua morte si riversano sul mercato una montagna di live, compilation di rarità e ristampe, curate dalla Rykodisc (cui Zappa aveva ceduto la licenza del catalogo) e dalla famiglia del musicista.

Frank Zappa & the Mothers of Invention
Freak out! (1966)

Senz'altro, fin dall'inizio della sua realizzazione, "Freak Out!" era già destinato a rimanere tra gli accadimenti più sconvolgenti nello scenario musicale della fine degli anni sessanta. La sua indubitabile carica rivoluzionaria ed innovativa avrebbe preparato il terreno per una nuova fase creativa nell'universo musicale giovanile contemporaneo. Questo incredibile debutto discografico è un disco volutamente incoerente, disomogeneo, formato da più realtà sonore dettate essenzialmente dal comportamento musicale dei protagonisti coinvolti. Accanto a delle composizioni scritte sotto forma di canzoni, compaiono audio manifestazioni di caos, anarchia, rumore, frenesia ed incondizionata creatività. Sembra quasi sancire che non è più tempo per la semplice musica di intrattenimento fine a se stessa. Questa sostanziale celebrazione della deviazione dalla norma è quanto di più coscientemente rivoluzionario si potesse proporre in un paese come gli USA da troppo tempo soffocato da tradizioni imposte e, forse, non sempre profondamente e completamente comprese dalle generazioni più giovani, un paese alle prese con le proprie contraddizioni interne necessariamente a confronto con la complessa situazione sociale e politica di un mondo - già allora - in veloce cambiamento.
E quindi, il suono di questa deviazione dalla norma si concretizza e si manifesta con chitarre distorte, vibrafoni, kazoos e voci stonate, strumenti quasi sempre inseriti in contesti simili alle banali canzoncine contemporanee ma che insieme raccontano un'altra storia, un nuovo orizzonte musicale grazie ad inequivocabili gesti sonori intransigenti. Ma le "stupid songs" non possono reggere molto ed arginare la vera voglia di sperimentazione del collettivo Mothers diretto dalla Mother Superior Frank Zappa e dopo le prime canzoni il Mostro si toglie la maschera e svela il suo vero volto con caustici collages di bizzarrie musicali e di provocazioni vocali che non avrebbe mai potuto essere pubblicato attraverso la discografia ufficiale.
Si manifesta il vero e proprio nuovo universo sonoro parallelo di quei tempi nutrito dallo spirito libero di un'estemporanea creatività e sapientemente guidato e decodificato in forma musicale/sonora da un attento direttore dei lavori, in grado di confezionare un vero e proprio inno alla libertà di espressione collettiva.
Questo album lo dedico al mio caro amico Alfredo, è grazie a lui che conobbi Frank.

Tracklist:
“Hungry freaks, daddy”
“Ain't got no heart”
“Who are the brain police?”
“Go cry on somebody else's shoulder”
“Motherly love”
“How could I be such a fool”
“Wowie zowie”
“You didn't try to call me”
“Any way the wind blows”
“I'm not satisfied”
“You're probably wondering why I'm here”
“Trouble every day”
“Help, I'm a rock”
“It can't happen here”
“The return of the son of Monster Magnet”

Formazione

Frank Zappa - chitarra, voce
Jimmy Carl Black - percussioni, batteria, voce
Ray Collins - voce solista, armonica, cimbali a mano, tamburello, forcina, pinzette
Roy Estrada - basso, guitarrón, voce soprana
Elliot Ingber - chitarra solista e ritmica

Ospiti

Gene Estes - percussioni
Eugene Di Novi - piano
Plas Johnson - sassofono, flauto
John Rotella - clarinetto, sax
David Anderle - violino
Benjamin Barrett - violoncello
Edwin V. Beach - violoncello
Paul Bergstrom - violoncello
Virgil Evans - tromba
Kim Fowley - hypophone
Carl Franzoni - voce
Roy Caton - copista
John Johnson - tuba
Carol Kaye - chitarra a 12 corde
Raymond Kelley - violoncello
Arthur Maebe - corno, tuba
George Price - corno
Kurt Reher - violoncello
Emmet Sargeant - violoncello
Joseph Saxon - violoncello
Neil LeVang - chitarra
Dave Wells - trombone
Kenneth Watson - percussioni
Vito Paulekas - voce, percussioni


Ospiti non accreditati

Jeannie Vassoir - voce di Suzy Creamcheese
Motorhead Sherwood - rumori
Paul Butterfield - voce
Mac Rebennack - piano
Les McCann - piano


Chicago Transit Auhority

I Chicago gruppo rock statunitense, formatosi nel 1967, sono una poderosa jazz-pop band, sette elementi padroni e virtuosi alfieri del proprio strumento, un'autentica “macchina da guerra” che ha prodotto nella golden era dei primi anni “70 i più bei dischi della nuova rock-fusion sull'onda dei Blood Sweet & Tears. Tre fiati su di una chitarra alla Hendrix, la voce del bianco Terry Kath che “più nera non si può” e i ritmi devastanti di Danny Seraphine non si erano mai visti e sentiti fino allora ed eccoli esordire con la sfida del doppio LP già dalla prima uscita discografica.
Chicago Transit Authority del 1969 (170 settimane nella classifica americana dei primi 100) è la consacrazione di una band coagulatasi nei campus anche sulle spinte delle aggregazioni e delle ribellioni studentesche nate proprio nella città dell'Illinois.
E' il tastierista Robert Lamm a tenere le redini della band, comporre e cantare buona parte dei brani anche se la stupenda cavalcata di Introduction è completo appannaggio di Kath e della sua orgogliosa voce “black”. La seguente Does Anybody Really Know What Time It Is? con Lamm al piano e voce solista si sfiora il capolavoro di costruzione sonora, grande jazz-song, grande tromba di Loughnane e cori perfetti; già consegnata alla storia. Ma è la seguente Beginnings sempre di Lamm che segnerà a fuoco il marchio dei Chicago: la sua voce calda accompagna i sinuosi fiati, la perfetta batteria e percussioni latine sostengono e accompagnano il basso di Cetera, tromba, trombone e sax si alternano agli assolo, i cori sottolineano la bellezza del brano. Question 67 and 68 è uno di quei brani epici sostenuti dalla limpidissima voce di Peter Cetera che conoscerà giustamente un successo personale per via di questa sua caratteristica vocalità; veramente un gioiello. Listen, il più corto dei brani, poco più di 3 minuti contro i 5/8 minuti degli altri è un'altra cavalcata di ottoni con il caratteristico basso arrembante. Poem 58 di Robert Lamm chiude quella che fu la seconda facciata dell'LP interamente dedicata al tastierista sia come composizioni che come voce solista e dove la chitarra distorta conduce la corsa per gli oltre otto minuti del brano.
Free Form Guitar che apre la terza facciata, dà libero sfogo all'immaginazione sonora del chitarrista Terry Kath con improvvisazioni sulla sei corde, rombi, gemiti, effetti larsen, scale ascendenti e discendenti sulla tastiera della sua Fender. Torniamo alla canzone pura con South California Purples, rock-blues di organo e basso con inserito un divertito omaggio ai Beatles di Walrus, anticipa il pezzo forte dell'album, I'm A Man, il brano di Steve Winwood composto a diciassette anni per i suoi Spencer Davis Group che qui riacquista una nuova sensazionale vita con percussioni trascinanti, la chitarra wah-wah, l'Hammond stratosferico e le tre voci (Lamm, Cetera, Kath) che si alternano alle strofe dando al brano una dimensione di unicità eterna. Per i posteri anche l'assolo di batteria Slingerland dell'italo-americano Danny. Quarta facciata e rumori di disordini studenteschi introducono Someday e la lunghissima Liberation quasi 15 minuti, brani live registrati nell'agosto del 1968 durante le assemble universitarie che certificano la bravura e la coesione della band anche dal vivo.
In seguito la locale compagnia di bus e metrò, appunto la CTA-Chicago Transit Auhority, unica proprietaria del moniker si arrabiò (BAH!) per l'utilizzo del proprio marchio e furono costretti ad abbreviare il nome della band semplicemente in Chicago.
L'intero lavoro è stato rimasterizzato nel 2002, completato con i minuti originali mancanti e le quattro facciate portate in unico cd che ci riconsegna intatta la perfezione del suono e l'affiatamento di questa band basilare per tutto il jazz-rock, il pop-funky, il pop-jazzy e la fusion che dilagherà negli anni “80 e “90.
 
Tracce:
Side 1
1.Introduction
2.Does anybody really know what time it is?
3.Beginnings
 
Side 2
4.Questions 67 and 68
5.Listen
6.Poem 58
 
Side 3
7.Free form guitar
8.South California purples
9.I'm a man
 
Side 4
10.Prologue, August 29, 1968
11.Someday (August 29, 1968)
12.Liberation
 
Formazione:
Peter Cetera - basso, voce, agogô
Terry Kath - chitarre, voce
Robert Lamm - piano, organo, tastiere, voce, maracas
Lee Loughnane - tromba, legnetti
James Pankow - trombone, campanaccio
Walter Parazaider - legni, tamburello basco
Danny Seraphine - batteria, percussioni




domenica 8 ottobre 2017

Mike Bloomfield / Al Kooper / Steve Stills ‎– Super Session








Super Session è un disco storico; l’incontro magico tra 3 figure di spicco della scena musicale degli anni sessanta. Mike Bloomfield, una delle grandi chitarre (da Paul Butterfield a Bob Dylan) morto nei primi anni ottanta per un’overdose; Al Kooper, uno dei migliori tastieristi dell’epoca e Steve Stills (Buffalo Springfield e poi CSN&Y).
Al Kooper ha la bella pensata nel maggio 1968 di convocare in uno studio di Los Angeles Mike Bloomfield e una sezione ritmica composta da Harvey Brooks al basso e Eddie Hoh alla batteria. Al e Mike si conoscono bene, avendo condiviso la rivoluzione dylaniana, e si completano a vicenda.
L’idea è sostanzialmente quella di jammare, come da sempre si usa nel jazz, su temi propri o altrui e vedere l’effetto che fa.
L’album, diviso in due parti, è capace di racchiudere spettacolari Blues Jam miscelate a calde folgorazioni prog e rivisitazioni dylaniane. La prima facciata immortala un duetto tra Bloomfield e Kooper (che assieme pubblicheranno anche due dischi di concerti ai Fillmore di San Francisco e New York) e carpisce al meglio l’animo blues dei personaggi. In Albert’s Shuffle, l’organo s’incontra alla perfezione con la Gibson pulita e poco distorta che procede ispirata nei quasi sette minuti di registrazione. Nel resto del progetto, più degli slalom di Albert’s Shuffle e Really convincono le cover: Stop (da Howard Tate) e Man’s Temptation (da Curtis Mayfield), nella prima è l’organo a dettare il ritmo. Un potente vibrato ed una batteria semplice ma attenta (Eddie Hoh) riescono a creare un effetto terribilmente penetrante. Kooper alza i toni in un solo accattivante prima di lasciar rientrare una chitarra ormai galvanizzata. La seconda alla Blood, Sweat & Tears. Pezzo forte è il più lungo (9’13”) His Holy Modal Majesty (Al Kooper, Mike Bloomfield). Le sonorità si distanziano profondamente da quelle blueseggianti d’apertura ed approdano in una dimensione prog-jazz.
Ottimi i risultati di questo primo giorno, ma in quello seguente Bloomfield non si presenta, che fare? La sala è pagata e Kooper convoca al volo un altro chitarrista, Stephen Stills, reduce dai Buffalo Springfield, prossimo ad unirsi con Crosby e Nash. Nella session più famosa di sempre i tre protagonisti non furono mai tutti insieme nella medesima stanza. Lo stacco è subito netto con la splendida vivacità di It Takes A Lot To Laugh, It Takes A Train To Cry (omaggio doveroso a Bob Dylan) e le distanze si accentuano con l’epopea acida di Season Of The Witch (da Donovan) e gli hendrixismi dello standard blues You Don’t Love Me. Il disco si conclude con Harvey’s Tune.
Un disco che non può assolutamente mancare.


Tracce:


1. Albert's Shuffle   (Al Kooper, Mike Bloomfield)
2. Stop   (Jerry Ragovoy, Mort Shuman)
3. Man's Temptation   (Curtis Mayfield)
4. His Holy Modal Majesty   (Al Kooper, Mike Bloomfield)
5. Really   (Al Kooper, Mike Bloomfield)
6. It Takes a Lot to Laugh, It Takes a Train to Cry  (Bob Dylan)
7. Season Of The Witch   (Donovan)  
8. You Don't Love Me   (Willie Cobb)
9. Harvey's Tune   (Harvey Brooks)


Tracce bonus (CD del 2003 - Legacy Records)
1. Albert Shuffle (inedito, mix  without horns)
2. Season of the Witch (inedito, mix  without horns)
3. Blues for Nothing (studio outtake)
4. Fat Grey Cloud (inedito, live)


Musicisti


- Al Kooper - pianoforte, organo, Organo ondioline, chitarra 12 corde, chitarra elettrica, voce
- Al Kooper - arrangiamenti strumenti a fiato (horns), produttore
- Mike Bloomfield - chitarra elettrica (brani A1, A2, A3, A4, A5 & A6)
- Stephen Stills - chitarra (brani B1, B2, B3 & B4)
- Harvey Brooks - basso
- Eddie Hoh - batteria
- Joey Scott - arrangiamenti strumenti a fiato (horns)


Musicisti nel brano Fat Grey Cloud
- Al Kooper - organo, armonica
- Mike Bloomfield - chitarra, voce
- Roosevelt Gook - pianoforte
- John Kahn - basso
- Skip Procop - batteria

venerdì 10 giugno 2016

Jefferson Airplane – Surrealistic Pillow

Verso la fine del '66, Signe Toly Anderson, che purtroppo ci ha lasciato il 28 Gennaio 2016, essendo in stato interessante, decide di abbandonare i Jefferson Airplane per dedicarsi al prossimo nascituro e alla famiglia. La band si trova improvvisamente sull'orlo dello scioglimento e decide di accogliere nelle sue fila la cantante/compositrice e strumentista Grace Slick, conosciuta durante gli innumerevoli concerti di quell'anno. Grace Slick, dotata di una bellissima e potente voce e di una ottima vena compositiva, era la front-woman della band acido-psichedelica The Great Society, uno dei primi gruppi che miscelava gli stili del rock-garage americano con influenze orientali. Nello stesso periodo c'é un'altra defezione, Skip Spence se ne va per formare i Moby Grape, dopo la parentesi come batterista alla corte dei Jefferson Airplane, ritornando al suo vero strumento, la chitarra, il suo posto viene preso da Spencer Dryden, nasce così la formazione dei Jefferson Airplane che arriverà al successo. Grace Slick porta con se dai Great Society due sue composizioni che a livello locale avevano avuto un certo successo e che, riveduti e corretti, diventeranno due tra i brani trainanti di Surrealistic Pillow (RCA 1967). I due brani di Grace: Sombody to love e White rabbit, sono tra i brani che danno il via alla lunga estate californiana, la "summer of love" del popolo hippie, che ha il suo epicentro a San Francisco. White rabbit in particolare diviene il manifesto di un movimento che partendo dalle strade della zona di Haight Ashbury, si espanderà in breve tempo a livello mondiale.

La musica dei Jefferson Airplane, sotto la spinta di Grace, si espande, diviene più complessa, assume toni furiosi, il basso di Cassady si fa tuonante, la chitarra di Kaukonen si fa lacerante ed eccheggiante di distorsioni, i ritmi divengono spezzati per lievitare poi in imperiosi crescendi, si affinano le parti vocali (prima improntati al folk rock), che via via assumono quella particolarità, che diverrà il loro marchio di fabbrica, il particolare intreccio tra Grace, Balin e Kantner, con la voce a turno, di chi fa da background, sempre leggermente ritardata rispetto alle altre due. Surrealistic pillow sarà il primo disco uscito dalla Bay Area a divenire disco d'oro, i testi, ermetici, ma sempre più improntati alla protesta nei confronti del sistema e della american way of life, faranno diventare i Jefferson Airplane la punta di diamante del movement, che minerà dalle fondamenta la società americana.

Il disco contiene, oltre ai due capolavori vocali di Slick, le prime caleidoscopiche sonorita` allucinogene, soprattutto nelle irruenze corali di She Has Funny Cars e 3/5 Of A Mile In Ten Seconds. Plastic Fantastic Lover poi e` l'incubo incalzante di un minstrel moderno a ritmo ossessivo con contrappunti lisergici di basso e chitarra. Al lato tenero e dolce del folk-rock si concedono il tenue e crepuscolare melodismo di Today e Coming Back To Me (Balin), la distesa ballata country di Dryden My Best Friend e l'assolo cibernetico e spirituale di Kaukonen Embryonic Journey.



Tracce:

01. She Has Funny Cars
02. Somebody To Love
03. My Best Friend
04. Today
05. Comin’ Back To Me
06. 3/5 Of A Mile In 10 Seconds
07. D.C.B.A.-25
08. How Do You Feel
09. Embryonic Journey
10. White Rabbit
11. Plastic Fantastic Lover



Formazione:

Marty Balin – Voce, chitarra
Jorma Kaukonen – Chitarra solista, ritmica, voce
Grace Slick – Voce, pianoforte, organo, flauto dolce
Paul Kantner – Chitarra ritmica, voce
Jack Casady – Basso, fuzz bass
Spencer Dryden – Batteria, percussioni






sabato 24 gennaio 2015

Colosseum




I Colosseum sono un gruppo britannico di progressive rock e jazz-rock formatosi a Londra nel 1968.
Il gruppo si formò a Londra nel 1968 sotto la guida di John Hiseman. Gli altri membri della band originaria sono Dick Heckstall-Smith ( saxofono), Tony Reeves (basso), Dave Greenslade (organo, voce), Jim Roche (chitarra). Ma Roche registrò soltanto una traccia, prima di essere sostituito con James Litherland (chitarra e voce).
Fecero il loro debutto live a Newcastle upon Tyne e l'apparizione al programma radiofonico "Top Gear" di John Peel valse loro notevoli lodi della critica.
Il primo album, Those Who Are About to Die Salute You, fu pubblicato dalla Fontana Records nel 1969. Il secondo album, Valentyne Suite, uscì sempre nel 1969, prima pubblicazione per la Vertigo Records. Per la registrazione del terzo album, The Grass Is Greener (1970), Clem Clempson sostituì James Litherland. Fu poi la volta di Louis Cennamo a sostituire Tony Reeves al basso, ma a sua volta fu sostituito da Mark Clarke nel giro di un mese, qui Hiseman ingaggiò il cantante Chris Farlowe. Questa è quella che viene considerata la formazione definitiva dei Colosseum, che in parte aveva già registrato l'album Daughter of Time nel 1970.
Nel marzo 1971 la band registrò i suoi concerti al Big Apple di Brighton e alla Manchester University e proprio qui, impressionati dall'atmosfera dell'esibizione, vi tornarono cinque giorni dopo per un concerto gratuito.
Tutte queste registrazioni vennero poi pubblicate in un doppio album dal vivo nel 1971, con il titolo di Colosseum Live.
La band si sciolse pochi mesi dopo, nell'autunno del 1971.
Pochi mesi dopo lo scioglimento, John Hiseman fondò con Mark Clarke i Tempest, Dave Greenslade invece formò i Greenslade con Tony Reeves, Clem Clempson si unì agli Humble Pie, Chris Farlowe si unì agli Atomic Rooster e infine Dick Heckstall-Smith avviò una carriera da solista.
Nel 1975 Hiseman, sempre affiancato da Mark Clarke, riformò la band con il nome di Colosseum II, con una nuova formazione, composta dal chitarrista Gary Moore e dal tastierista Don Airey. I Colosseum II pubblicarono quattro album prima di sciogliersi nel 1978.
Il gruppo tornò a riunirsi nel 1994 in occasione della registrazione di un doppio album e DVD dal vivo a Colonia (Germania), con la stessa formazione presente nel terzo album americano The Grass Is Greener del 1970. Vennero ripubblicate anche versioni estese di Valentyne Suite e del Colosseum Live, e diverse compilation.
La moglie di Hiseman, la sassofonista Barbara Thompson, si unì occasionalmente alla band dopo la morte di Dick Heckstall-Smith nel 2004. Nel 2014 viene annunciata l'uscita di "Time on our side", sesto album della band dopo la reunion.
Valentyne Suite è il secondo album pubblicato dai Colosseum, nel 1969. È da molti considerato tra i primi dischi progressive per via della lunga suite che dà il titolo all'album.
Il disco si apre con "The Kettle", graffiante e nervosa, che si caratterizza per il grande lavoro di chitarra soprattutto negli assoli e dal ritornello particolarmente coinvolgente. La seguente "Elegy" è molto più jazzistica come approccio, guidata da un ottimo cantato e contraddistinta dai bellissimi assoli di sax di Dick Heckstall-Smith. "Butty's Blues" è psichedelica, molto emozionante, si regge quasi esclusivamente sulla sezione di fiati, fino all'arrivo del cantato di Litherland che ne arricchisce l'impostazione molto suadente e sognante.
Ma il vero motivo per il quale questo capolavoro sarà ricordato è la sua suite omonima, un'opera nell'opera. Credo non ci siano problemi a definirla capolavoro e che non sia assolutamente inferiore alle migliori suite del genere. "The Valentyne Suite" è divisa in tre atti. La suite si differenzia dal tutto il resto del disco per la sua struttura decisamente più progressiva, e va sicuramente ascoltata nella sua interezza e bellezza, tra momenti sognanti ed elettrici: più di dieci minuti assolutamente memorabili.


Formazione:
Dave Greenslade-tastiere
Dick Heckstall-Smith-sassofono
Jon Hiseman-batteria
James Litherland-chitarra, voce
Tony Reeves-basso


Tracce:

1. The Kettle (4:25)

2. Elegy (3:10)

3. Butty's Blues (6:44)

4. The Machine Demands A Sacrifice (3:52)

5. The Valentyne Suite:

    Theme One: January's Search (6:25)

    Theme Two: February's Valentyne (3:33)

    Theme Three: The Grass Is Always Greener (6:55)

 


















domenica 11 gennaio 2015

Pino Daniele

5 Gennaio 2015
Melodie mediterranee, , blues, funky, soul, erano davvero tanti i colori della musica di Pino Daniele, uno degli artisti che ha maggiormente contribuito ad innovare la scena musicale italiana, morto ieri a soli 60 anni. 
La sua storia discografica inizia nel 1977 con l'album Terra mia e si conclude nel 2012 con La grande madre. 23 album in studio, all'interno dei quali erano custoditi quei brani-capolavoro entrati a pieno titolo nella storia della grande musica italiana.
Ed è con uno di questi brani che vogliamo ricordarlo.

Grazie Pino