giovedì 8 novembre 2018

Bob Dylan The Freewheelin'






Bob Dylan, al secolo Robert Zimmermann, nasce il 24 maggio del 1941 a Duluth, Minnesota (USA). Viene considerato il più grande esponente della canzone folk statunitense e rappresenta anche una figura decisiva di diffusione di messaggi pacifisti e in sostegno della causa dei diritti umani, difatti canzoni come Blowin' in the Wind e The Times They Are A-Changin' sono diventate gli inni dei movimenti pacifisti e per i diritti civili.
Nel 1960 il suo mito Woody Guthrie si ammala e Bob decide che questa può essere l'occasione per conoscerlo. Si reca al New Jersey Hospital dove trova un Guthrie malato, povero e abbandonato, ha così inizio un'intensa e vera amicizia. Sulla spinta del maestro, inizia a girare i locali del Greenwich Village.
Il 19 marzo 1962 esce l'album d'esordio "Bob Dylan", è una raccolta di brani tradizionali per voce, chitarra e armonica, solo due le canzoni di Dylan: Talkin' New York e l'omaggio al maestro Guthrie Song To Woody.
L'anno successivo (1963) pubblica quello che è considerato il suo capolavoro (il primo con composizioni interamente sue), The Freewheelin' Bob Dylan L'album contiene brani divenuti veri e propri inni generazionali, come Blowin' in the wind, Masters of war e A hard rain's a-gonna fall.
Molti grandi artisti hanno suonato con lui, per citarne alcuni: The Band, Joan Baez, Johnny Cash, The Byrds, Tom Petty, The Grateful Dead, Joni Mitchell, Neil Young, Bruce Springsteen, Stevie Ray Vaughan, Eric Clapton, Carlos Santana, Van Morrison, Mark Knopfler, The Rolling Stones.
Bringing It All Back Home (marzo 1965 ) segnò un profondo cambiamento stilistico: è il primo album in cui Dylan viene accompagnato da strumenti elettrici.
Nell'estate del 1965 Dylan fece il suo primo concerto elettrico al Newport Folk Festival, con un gruppo formato per l'occasione e prelevato in parte dalla Paul Butterfield Blues Band. Dylan aveva già partecipato con successo altre due volte, nel 1963 e nel 1964, ma nel 1965 venne fischiato e lasciò il palco dopo sole tre canzoni, ma da li a poco Peter Yarrow lo convinse a tornare e suonò due canzoni acustiche, It's All Over Now Baby Blue e Mr. Tambourine Man, che furono accolte favorevolmente.
Seguirà un tour inglese (1966) molto discusso, in quanto elettrico. Al Free Trade Hall di Manchester un fan urlerà addirittura “Giuda!” come si sente anche in No Direction Home, film documentario del 2005 diretto da Martin Scorsese e The Bootleg Series Vol. 4: Bob Dylan Live 1966, The "Royal Albert Hall" ( in realtà il concerto venne tenuto al Free Trade Hall di Manchester).
Dopo più di trent'anni, diventato ormai un mito, nel 1992 la Columbia, decide di organizzare un concerto in suo onore al Madison Square Garden di New York City, l'evento è trasmesso in mondovisione e diventa sia un video che un doppio CD intitolato Bob Dylan - The 30th Anniversary Concert Celebration (1993). Sul palco, tutti nomi leggendari del rock: , Stevie Wonder, Eric Clapton, George Harrison, Lou Reed e tanti altri.
I suoi album hanno ricevuto Grammy Award, Golden Globe e Academy Awards, ed è stato incluso nella Nashville Songwriters Hall of Fame, nella Songwriters Hall of Fame e nella Rock & Roll Hall of Fame, si parlò addirittura di una sua candidatura al Premio Nobel per la letteratura.
The Freewheelin' Bob Dylan è il secondo album di Bob Dylan pubblicato nel maggio del 1963 (il primo con canzoni interamente sue).
Prima dell'uscita del disco, Dylan era considerato uno dei tanti cantanti folk, dopo venne visto come un artista completo, forse persino una specie di profeta portavoce della gioventù disillusa.
Il disco si apre con Blowin' in the Wind", che divenne un brano manifesto degli anni sessanta e destinato a restare nella storia della musica rock e a lanciare su scala planetaria il giovane Dylan.
La seconda traccia è la bella "Girl from the North Country", dolce e delicata. La musica è leggera e armonica e il finale di armonica è semplicemente fantastico.
Altri brani degni di essere ricordati sono "Masters of War", brano che si scaglia contro i "signori della guerra" e "Talkin' World War III Blues", acido talkin' blues su una possibile nonché temuta terza guerra mondiale.
"Down the Highway", semplice e diretto blues vecchia maniera, con accordi essenziali e un canto quasi parlato. La canzone è molto appassionata e la voce di Bob Dylan è la vera ed unica protagonista.
"Bob Dylan’s Blues" più elaborata della precedente, sia nel testo che nella musica, vede primeggiare l’armonica.
Segue un altro dei punti più emozionanti dell’album, l’apocalittica "A Hard Rain’s A-Gonna Fall", canzone dal forte testo che prende spunto dalla possibilità di una “forte pioggia”.
"Don’t Think Twice, It’s All Right" forse la melodia più emozionante dell’album. È una pura e semplice ballata romantica che parla d’amore.
"Bob Dylan’s Dream" è un sogno , quello del proprio passato e della propria vita spensierata da ragazzo, la partenza dalla propria terra per costruirsi un futuro.
Particolarissimo è invece lo stile e il canto di "Oxford Town".
"Talking World War III Blues" è un altro blues, sempre in stile parlato, nel quale Dylan immagina cause e conseguenze di una possibile terza guerra mondiale.
"Corinna, Corinna" è una delicata canzone d’amore dedicata ad una ragazza lontana.
“Honey, Just Allow Me One More Chance” è uno scatenato blues scritto con Henry Thomas.
L’album si chiude con la splendida e divertita dichiarazione di vita anarchica di "I Shall Be Free".

Tracce:

1.Blowin' In The Wind
2.Girl From The North Country
3.Masters Of War
4.Down The Highway
5.Bob Dylan's Blues
6.A Hard Rain's A-Gonna Fall
7.Don't Think Twice, It's All Right
8.Bob Dylan's Dream
9.Oxford Town
10.Talkin' World War III Blues
11.Corrina, Corrina
12.Honey, Just Allow Me One More Chance
13.I Shall Be Free

martedì 7 agosto 2018

John Mayall - Blues from laurel canyon 

Il 14 luglio del 1968 i Bluesbrakers si sciolsero in seguito alla decisione di John Mayall di intraprendere una carriera solista con un piccolo gruppo. Questo lo portò a scegliere le persone giuste per la nuova formazione. Dubito ci fosse una scelta migliore della chitarra di Mick Taylor che in quest’album splende come non mai. Ha lavorato con Mayall più a lungo di qualunque altro chitarrista. Mayall era molto fiducioso anche della nuova sezione ritmica composta da Stephen Thompson e Colin Allen. Quest’album ripercorre le 3 settimane trascorse a Los Angeles dopo lo scioglimento dei Bluesbrakers. "Sono veramente soddisfatto di come i miei musicisti hanno trasformato in musica tutte le esperienze e le emozioni che ho trascorso durante questa breve visita alla mia nuova casa." [John Mayall, 3 Settembre 1968] Bastano le sole parole di John Mayall per descrivere la sua stessa pietra miliare del blues. Un viaggio attraverso le sfumature musicali di colui che ha fatto del blues una vera e propria ragione di vita, colui che ha attraversato intere decadi rimanendo sempre fedele alla sua religione senza mai fossilizzarsi, ma cercando di rinvigorirla e trasformarla in modo da poter essere tramandata a tutte le generazioni future. L’immensa produzione musicale di John Mayall scorre sotto il segno del blues, ma abbraccia anche il rock e il jazz oltre ai numerosi talenti venuti allo scoperto grazie a lui: Jack Bruce, Mick Taylor, Peter Green, John McVie, Eric Clapton, Mick Fleetwood, Aynsley Dunbar, Jon Hiseman, Dick Heckstall-Smith, Buddy Whittington e così via. Ciò che il nome di Miles Davis significa per il jazz, quello di John Mayall si identifica come uno dei più grandi innovatori e cultori del blues di tutti i tempi, in particolare per la scena inglese. Proprio come Miles, John è andato oltre le forme tradizionali del blues lanciandosi nella ricerca di nuove sfumature e, al tempo stesso, facendo leva su svariati talentuosi musicisti. L’impronta indelebile lasciata nella storia del blues riguarderà non soltanto i suoi album, ma anche le produzioni a suo nome e il suo contributo di inestimabile valore nei confronti del revival del blues americano in Europa, attraverso l’organizzazione di svariate sedute di registrazione che ebbero come protagonisti i quasi sconosciuti bluesman americani. Il viaggio di John Mayall riportato in Blues from Laurel Canyon inizia con il rombo del motore di un aeroplano che lo trasporta nell’area di Los Angeles, un vero e proprio fiume in piena soprattutto nella seconda metà degli anni ’60. È qui che si ritrovano tutti i grandi, coloro che daranno vita a nuove filosofie musicali che di lì a poco cambieranno il volto delle nuove generazioni americane e non solo. L’avventura americana per Mayall inizia con “Vacation”, un’elettrizzante introduzione scandita da un’impeccabile successione di accordi e dall’immortale solo firmato dal giovanissimo Mick Taylor: un tornado, un fulmine a ciel sereno, un’introduzione da premio Oscar che non lascerebbe per nulla presagire ad un disco blues. Subito dopo, l’atterraggio: in “Walking on sunset” e “Laurel Canyon Home”, John descrive tutta la magia trasmessa da questi nuovi luoghi (“all the pretty women”, “everything is like a friend”) e sembra quasi non esserci fine alla bellezza del posto. Dopodiché, Mayall passa in rassegna gli incontri avvenuti con i musicisti del luogo: in “2401”, esprime tutta la sua ammirazione per “l’eroe” Frank Zappa, colui che cerca di “cambiare il sistema” attraverso la sua musica (“there’s a hero living at 2401, got his Mothers working while you’re having fun”), mentre in “The bear” descrive il suo soggiorno insieme al cantante Bob Hite (che verrà ribattezzato proprio con questo soprannome) e ai Canned Heat nella “casa del blues”, nella quale si ascoltava e si faceva musica giorno e notte. Tutte le avventure di Mayall vengono narrate sopra uno splendido sottofondo musicale che spazia attraverso il blues, atmosfere esotiche scandite dall’uso dei tamburi (“Medicine Man”), fino a raggiungere il jazz-swing con “Miss James”, dove Mayall mette in mostra tutta la sua versatilità passando dall’organo all’armonica e alla chitarra. Trovano spazio anche le atmosfere “solitarie” come in “First time alone” che viene scandita dal timbro vocale di John, riconoscibile fra mille. La chitarra che a tratti colora il brano è quella di Peter Green, colui che si unì nuovamente ai Bluesbrakers quando Eric Clapton lasciò la band di John Mayall nel 1966. Un’incredibile e altrettanto atipica traccia di chiusura, “Fly tomorrow”, chiude in bellezza il capolavoro di John Mayall: il quartetto “cuce” con eccellente maestria due brani insieme attraverso un crescendo che passa da un’atmosfera piatta e rilassata ad un turbinio di profonde linee di basso e ritmo incalzante di batteria sopra i quali Mick Taylor punzecchia con la sua Les Paul, mentre Mayall lancia delle vere e proprie sassate sonore attraverso il suo Hammond. E come se non bastasse, gli effetti psichedelici dell’organo condurranno poi alla chiusura dell’album con un tappeto di percussioni e un fantastico effetto di chitarra alla “spaghetti western” che portano a termine il viaggio di John Mayall. Blues from Laurel Canyon venne registrato tra il 26 ed il 28 agosto del 1968 negli studi della casa discografica Decca, a Londra. Poco meno di un anno più tardi, lo stesso John Mayall darà la propria benedizione al giovane Mick Taylor per il suo ingaggio nei Rolling Stones, mentre Stephen Thompson e Colin Allen si uniranno agli Stone the Crows. Da parte sua, John inizierà un nuovo capitolo della sua lunghissima carriera, continuando a sperimentare diverse formazioni. Sono molti i concept album nella storia della musica, ma non nel blues: forse non è il genere adatto per descrivere una vera e propria storia. D’altronde, ogni singolo blues rappresenta una piccola storia a se stante, che sia il mal di vivere, la sofferenza per un amore perduto, il patto con il diavolo, l’ossessione per la bottiglia, la follia di ogni giorno… tutto questo era vero fino a quando John Mayall non creò Blues from Laurel Canyon, attraverso il quale raccontò un viaggio vero, il suo, e lo fece unendo fra di loro (senza pause) tutti quegli episodi che lo segnarono profondamente. Ogni singola avventura diversa dall’altra, diverso colore, diversa tonalità, diversa struttura, diversa storia e diversi protagonisti.

BLUES FROM LAUREL CANYON
(Decca Records, novembre 1968)
Tracklist
1. Vacation
2. Walking On Sunset
3. Laurel Canyon Home
4. 2401
5. Ready To Ride
6. Medicine Man
7. Somebody's Acting Like A Child
8. The Bear
9. Miss James
10. First Time Alone
11. Long Gone Midnight
12. Fly Tomorrow

All tracks written by John Mayall.
Line-up: John Mayall - guitar, harmonica, keyboards, vocals
Mick Taylor - guitar, hawaiian guitar
Colin Allen - drums, tabla
Stephen Thompson - bass
Peter Green- guitar on "First time alone"

martedì 13 febbraio 2018

Led Zeppelin I

I Led Zeppelin, gruppo britannico, si formano nel 1968, dopo che il chitarrista Jimmy Page lascia gli Yardbirds, recluta il bassista John Paul Jones, il batterista John Bonham ed il cantante Robert Plant, formando questa nuova band che sarebbe diventata uno dei più importanti gruppi rock della storia.
La loro musica, le cui radici affondano in generi diversi, ha costituito una formula completamente inedita per l'epoca.
Il gruppo, scioltosi nel 1980, anno della morte di John Bonham, fu composto per l'intero periodo della sua attività da Robert Plant (voce, armonica), Jimmy Page (chitarre), John Paul Jones (basso, tastiere) e John Bonham (batteria, percussioni).
In seguito alla morte di Bonham, Page e Plant hanno proseguito la propria attività musicale come solisti, ritrovandosi occasionalmente per esibirsi dal vivo nel corso di eventi commemorativi o celebrativi. I Led Zeppelin sono tra i gruppi di maggior successo commerciale: dal 1968 ad oggi il gruppo ha venduto oltre 300 milioni di dischi.
Il 10 Dicembre 2007 ci fu la loro storica reunion, un concerto di beneficenza tenutosi all' The O2 Arena di Londra con Jason Bonham, figlio di John, alla batteria. La registrazione di questo concerto uscì nel 2012 con il film "Celebration Day". Per questo concerto il gruppo è entrato nel Guinness dei primati per la "maggior richiesta di biglietti per una singola esibizione dal vivo".
Il 12 gennaio 1995 i Led Zeppelin sono stati introdotti nella Rock and Roll Hall of Fame. In una classifica del 2003 la rivista Rolling Stone, li pone al 14º posto tra i 100 musicisti più importanti di tutti i tempi.
La discografia del gruppo comprende nove album in studio pubblicati dal 1969 al 1982:
1969-Led Zeppelin
1969-Led Zeppelin II
1970-Led Zeppelin III
1971-Led Zeppelin IV
1973-Houses of the Holy
1975-Physical Graffiti
1976-Presence
1979-In Through the Out Door
1982-Coda

Led Zeppelin 1969

L'album inizia con un brano energico e aggressivo: "Good Times, Bad Times", Jimmy Page non perde tempo a mostrarci di cosa è capace con degli assoli eccezionali.
"Babe I'm Gonna Leave You", lenta ballata folk, si mostra intimista e struggente grazie anche all'interpretazione di un Plant in gran vena, oltre che agli stupendi arpeggi di Page.
Si prosegue col blues di "You Shook Me", scritta da Willie Dixon e portata al successo da Muddy Waters, pezzo in gran parte strumentale utile a Page a mostrare di cosa era capace, mentre "Dazed And Confused" viene aperta dai rintocchi di basso di Jones, vero protagonista insieme al solito Page, che si diletta nell'ennesimo assolo di questa canzone.
Ancora Jones si rende protagonista, ma stavolta con l'organo, dell'intro di "Your Time Is Gonna Come", brano rilassante e piacevole, facilmente orecchiabile; invece, nella strumentale e folk "Black Mountain Side", è ancora Page a far da padrone, accompagnato da Vimar Jasani alle tabla, mentre la successiva "Communication Breakdown" è un pezzo veloce ed aggressivo, vero esempio di hard rock, dove si resta ipnotizzati dall' assolo di Page.
"I Can't Quit You Baby" è un'altra cover di Willie Dixon ed il disco si chiude con un brano vigoroso: "How Many More Times", altro potentissimo blues che contribuirà a consacrare gli Zeppelin.

Tracce:
1. Good Times Bad Times
2. Babe I'm Gonna Leave You
3. You Shook Me
4. Dazed And Confused
5. Your Time Is Gonna Come
6. Black Mountain Side
7. Communication Breakdown
8. I Can't Quit You Baby
9. How Many More Times

Formazione:
-Robert Plant - voce, armonica a bocca
-James Patrick Page - chitarra elettrica, chitarra acustica, pedal
steel guitar, cori
-John Paul Jones - basso, organo, cori
-John Bonham - batteria, timpani, cori

Altri musicisti
Viram Jasani - tabla





Grateful Dead-Workingman’s Dead

Dopo essere saliti agli onori delle cronache grazie ai primi tre album pubblicati tra il 1967 ed il 1969, che mostrarono una crescita sempre più sostanziale, con l’inizio del nuovo decennio i Grateful Dead cambiarono la loro direzione musicale in maniera netta ed inattesa. La band capitanata da Jerry Garcia stupì tutti con un’accoppiata di album in cui a predominare non erano più il rock psichedelico od il blues, bensì il country ed il folk, così tanto distanti da quelle sonorità a cui i fan di prima ora del gruppo erano ormai abituati. E così, dopo gli ottimi riscontri ricevuti da Anthem of the Sun prima ed Aoxomoxoa dopo, il combo di San Francisco inaugurò il nuovo decennio pubblicando nel giugno del 1970 Workingman’s Dead e nel novembre dello stesso anno American Beauty, due album che portarono finalmente quel successo commerciale che ancora non era arrivato. La formazione dell’epoca comprendeva, oltre al già citato Jerry Garcia (il quale gestiva le parti soliste di chitarra, la pedal steel guitar e presenziava dietro al microfono), anche il chitarrista Bob Weir, il bassista Phil Lesh, il tastierista e armonicista Ron “Pigpen” McKernan e ben due batteristi: Bill Kreutzmann e Mickey Hart. Quest’ultimo non sarebbe durato a lungo tra le fila della band, dato che lasciò i Grateful Dead nel febbraio del ’71, mentre l’addio di McKernan fu un tragico evento, causato dalla sua morte per cirrosi epatica nel marzo del ’73. Settimo membro accreditato tra le note del disco era il paroliere Robert Hunter. Al momento di realizzare Workingman’s Dead, i Grateful Dead erano perciò all’apice della loro carriera, nel pieno della loro vena creativa, enfatizzata dall’album Live/Dead, uscito nel 1969, ovvero la consacrazione della vera forza della band: il palcoscenico, luogo in cui la band californiana si destreggiava in totale libertà dando vita a brani lunghi ed elaborati, frutto del loro genio musicale e spesso completamente diversi, rinnovati rispetto alle corrispettive versioni in studio.
Workingman’s Dead venne registrato in pochissimi giorni e fu molto influenzato da artisti contemporanei coi quali gli stessi Dead avevano rapporti d’amicizia, come anche Garcia tenne a precisare. Tra questi, l’importanza maggiore la ebbero Crosby, Still & Nash, il cui stile riecheggia non poco tra i solchi dell’album. Ciò risulta evidente già nell’iniziale Uncle John’s Band, in cui, al di là del lato strumentale che resta perlopiù uno sfondo, ad emergere sono soprattuto le voci, corali e molto soft nell’approccio, ma allo stesso tempo trascinanti. Stesso discorso per la successiva High Time, canzone che più di tutte potrebbe risultare ostica da digerire per i fan di vecchia data, non abituati ad un andamento così estremamente lento e d’atmosfera. Sotto questo punto di vista, Dire Wolf è una canzone fortunatamente più vivace, che ci risveglia dal leggero torpore iniziale -di qualità, ma pur sempre di questo si tratta- e ci accompagna alla più blueseggiante New Speedway Boogie, con un cantato più deciso e delle chitarre maggiormente impegnate a creare il giusto contorno. Sulla scia di quest’ultima troviamo anche Cumberland Blues, canzone dal ritmo per la prima volta incalzante e molto coinvolgente. Il comparto vocale gira senza intoppi e qui più che mai viene a galla la vera anima country dell’album. Si torna su ritmi blandi e quasi trascinati su se stessi con la gradevolissima Black Peter; al di là della bella voce narrante di Garcia, si capisce subito che ogni elemento è al proprio posto, e così anche un lieve accenno di tastiere sullo sfondo o una nota emessa dall’armonica in maniera appena percepibile risulta fondamentale per la buona riuscita del pezzo. Easy Wind è invece una di quelle tracce che sembra costruita apposta per essere riproposta dal vivo, in lunghe suite di venti minuti o anche più, in cui ogni strumento ha la possibilità di finire sotto i riflettori con assoli o sperimentazioni varie. La prima e l’ultima traccia di Workingman’s Dead furono le due canzoni scelte come singoli (che tra l’altro non ricevettero un gran feedback all’epoca). Tra le due, la più azzeccata a svolgere questo ruolo è però Casey Jones, frizzante ed estremamente orecchiabile, che ben si adatta al mood del disco.
Il quarto album dei Grateful Dead all’epoca in cui uscì lasciò spiazzati gran parte dei fan della band, e rappresentò un punto di confine piuttosto netto tra il materiale pubblicato prima di allora e quanto fatto successivamente. Paragonare questo lavoro con i precedenti sarebbe un errore in partenza, dato che si tratta proprio di generi e stili differenti tra loro. Con American Beauty i sei californiani proseguirono sulla direzione qui intrapresa -d’altronde solo pochi mesi separano la pubblicazione di questi due album-, salvo incappare di lì a poco in alcune traversie -citate in precedenza- che stravolsero ancora la loro identità musicale. Quarantacinque anni ci separano oggi da Workingman’s Dead, e certo tanti fattori sono cambiati da allora, ma a dispetto delle naturali critiche che si possono muovere a questo lavoro, è significativo notare come certe canzoni suonino ancora efficaci come un tempo, pur nella loro semplicità compositiva. Così lontane da quella primigenia forma di rock psichedelico cui i Grateful Dead ci avevano tanto bene abituati, ma sempre fortemente piacevoli da riascoltare.

Tracce:

Side one

1. "Uncle John's Band"
2. "High Time"
3. "Dire Wolf"
4. "New Speedway Boogie"

Side two
5. "Cumberland Blues" (Garcia, Hunter, and Phil Lesh)
6. "Black Peter"
7. "Easy Wind" (Hunter)
8. "Casey Jones"

2003 reissue bonus tracks

9. "Dire Wolf" (recorded at Santa Rosa Veteran's Memorial Hall on 6/27/1969)
10 "Black Peter" (recorded at Golden Hall Community Concourse in San Diego on 1/10/1970)
11 ."Easy Wind" (recorded at Springer's Ballroom in Portland on 1/16/1970)
12. "Cumberland Blues" (recorded at the Oregon State University Gym on 1/17/1970)
13. "Mason's Children" (recorded at the Civic Auditorium in Honolulu on 1/24/1970)
14. "Uncle John's Band" (recorded at Winterland on 10/04/1970)









Pink Floyd-The Wall

The Wall è l'undicesimo album in studio dei Pink Floyd, pubblicato il 30 Novembre del 1979.
Durante l'ultimo concerto del tour In the Flesh, eseguito al Montréal Olympic Stadium nel luglio 1977, un gruppo di spettatori in prima fila irritarono Waters con le loro urla a tal punto che il bassista arrivò a sputare addosso ad uno di loro.
Incredibilmente, tutto il concept di The Wall nasce da un gesto avvenuto in un istante, emblema di un istinto che nella sua semplicità racchiude molti concetti e significati.
Roger Waters non perde tempo a comporre la prima demo del disco, puntando il dito questa volta contro un tema veramente scottante: The Wall è il disco rock che combatte il rock. La storia del concept segue come argomento principale la vita di Pink, una rockstar che dopo la sua ascesa, consumato dal successo, inizia a distruggere e ad allontanarsi da tutto ciò che ha attorno a sé. Ovviamente il tutto non è così tremendamente semplicistico, poiché nel suo percorso di isolamento la rockstar tocca della tappe che diramano i temi dell'album in maniera veramente ampia. L'allontanamento dalla moglie, la morte del padre in guerra, l'alienazione dalla società, le lotte con la grande "macchina" dell'industria discografica e altri temi. Il dipinto che lentamente prende colore sulla tela è la raffigurazione di un mondo che ha una facciata completamente diversa dall'anima: nonostante il rock significhi libertà, espressione e forza, in The Wall vediamo come dietro tutto ciò ci siano una lunga serie di obblighi, ombre e finzioni. Nel disco non mancano numerosi riferimenti alla vita di Roger Waters, che oramai aveva la leadership del gruppo e alla figura già mitologica del lontanissimo Syd Barrett, mai dimenticato. Ovviamente dietro la figura di Pink, possiamo vedere l'essere umano, l'uomo di ogni giorno, in continua lotta con le sue guerre interne e le ansie quotidiane. È qui che il platter trascende dalla concezione di disco per divenire un'opera d'arte.
In the Flesh? apre le danze con una progressione maestosa e degna di ciò che seguirà più avanti: subito viene in risalto la voce di Waters, accompagnata dai cori e dall'organo dell'ospite Fred Mandel. La punta di diamante della canzone è il finale, in cui prendono il sopravvento gli effetti sonori, ad emulare la caduta di un aereo ed il pianto di un bambino. L'esplosione lascia la scena a The Thin Ice, legando in pochi secondi due temi opposti, ovvero la nascita di Pink e la morte in guerra del padre. La scelta dell'effetto usato nell'intervallo fra le due canzoni è riconducibile a un riferimento autobiografico di Waters, in quanto il padre dello stesso bassista morì durante un assalto aereo ad Anzio nella seconda guerra mondiale, nei primi mesi di vita dell'artista. Il continuo alternarsi fra esplosioni sonore e momenti di calma imperversa nella seconda traccia del primo disco, costituendo uno schema classico che ritornerà poi nel corso dell'opera. Degne di nota sono le tanto semplici, quanto piacevoli, scale di Gilmour alla chitarra. Flanger e delay aprono uno dei grandi leitmotiv del platter, ovvero Another Brick in the Wall (Part I), che nonostante la struttura ripetitiva e semplice è costellata di piccoli effetti, dettagli e armonizzazioni che sospendono l'atmosfera con enorme maestria. Questa è una cosa che succede spesso nel disco: ci sono diverse tracce in cui non vi è un elemento sopra gli altri, ma un grande insieme di piccole cose che costruiscono in maniera omogenea l'ambiente. Pink si interroga sulla sua vita, ricordando nuovamente il padre e successivamente il suo difficile rapporto con la scuola che tende a spersonalizzare ogni individuo. Quest'ultimo tema è ripreso nel breve intervallo The Happiest Days of Our Lives e nella successiva Another Brick in the Wall (Part II). Anche la scuola è un elemento che non fa altro che posare mattoni intorno a Pink, costruendo il muro che lo porterà all'isolamento totale. L'ultimo brano citato si divide in due parti che ripetono la stessa strofa, la prima cantata da Gilmour e la seconda dal coro dei ragazzi della Islington Green School ad emancipare il tema trattato. Dopo il magnifico assolo, "cantato" da una Fender cristallina, vi è la chicca del maestro che riprende l'alunno dicendo: Se non mangi la tua carne, non avrai nessun budino. Come farai ad avere il budino se non mangi la tua carne?. Una frase tanto semplice, che gioca sulle parole, per mettere in risalto gli obblighi, le regole e la totale chiusura mentale delle scuole. L'analisi delle forze motrici che costruiscono il muro continua linearmente con Mother, lenta e dolce ballad acustica che fa tesoro di un meraviglioso assolo che esplode a metà canzone. La traccia parla del rapporto fra Pink e la madre iperprotettiva, che soffoca le esigenze del figlio (proprio come accade a Waters, infatti anche questo è considerabile come un riferimento autobiografico) e blocca il suo processo di crescita rendendolo incapace di vivere indipendentemente, privo di influenze decisionali. Le atmosfere più claustrofobiche e inquietanti, che segnano l'ormai vicino completamento del muro, iniziano ad affacciarsi con Goodbye Blue Sky ed Empty Spaces: i temi dell'isolamento e dell'assenza di comunicazione, fanno da padroni in questi brani che in alcuni momenti illudono con una finta dolcezza, che sfocia sempre in qualcosa di pesante e angosciante. Pink si domanda come potrebbe completare il muro e poco dopo Young Lust ci illustra la vita da rockstar stereotipata del protagonista, fatta di donne ed eccessi. I ritmi si fanno più sostenuti e la chitarra distorta, con una linea melodica che entra facilmente in testa, molto godibile. Rimanendo in tema, la voce di una groupie apre One of my Turns, una delle canzoni dall'aspetto più filosofico del platter, che prende in analisi il cambiamento: l'amore lentamente diventa grigio, come la pelle di un uomo che si avvicina alla morte, tutto cambia e nonostante facciamo finta ogni notte che le cose vadano bene, ci prendiamo in giro, invecchiando e freddandoci. Pink, così come Waters, dipinge il terribile aspetto della separazione dalla compagna. Una strada senza uscita che sfocia prima (nella seconda metà della canzone) in uno sfogo di follia della rockstar e successivamente, in Don't Leave me Now, nell'assoluta angoscia di essere definitivamente abbandonato a se stesso. Pink si chiede dove fosse la moglie quando lui ne aveva bisogno e si strugge implorandola di non lasciarlo solo in quel momento. Solo gli effetti e i sintetizzatori cupi di Wright accompagnano la straziante voce del bassista per tutta la prima parte della canzone, che esplode poi in maniera toccante e sognante. Con Another Brick in the Wall (Part III) ci avviciniamo inesorabilmente al finale del primo disco, nel quale Pink, dopo un urlo di rabbia, si rende conto di non avere più bisogno di nulla e di nessuno. La canzone riprende i motivi delle altre due parti, in maniera più pesante e distorta, come segno di un processo oramai sul punto di finire. La rockstar saluta il mondo, sostenendo che quest'ultimo non ha più nulla da dirgli per fargli cambiare idea. La cosa più grave non è la chiusura, ma il fatto che lui stesso sia compiaciuto e convinto di questa sua scelta. La follia si impadronisce totalmente di lui e, con Goodbye Cruel World, The Wall si chiude con l'alienazione totale.
Gli arpeggi e il basso corposo di Hey You aprono la seconda parte dell'opera, in cui Pink lancia un urlo di disperazione verso l'esterno, cercando aiuto da chiunque sia dall'altra parte del muro. Oltre ad essere una delle migliori canzoni dell'opera, Hey You è anche una delle maggiori prove di Gilmour, sia come cantante che come chitarrista in tutto The Wall. La linea vocale è veramente adatta al contesto musicale ed evocativamente ci invita quasi ad aiutare Pink. L'assolo, semplice quanto efficacie e tirato, genera un grande pathos tragico grazie anche al supporto di un riff trascinante. Due soli accordi alternati suonati con il sintetizzatore, delle voci modulate in sottofondo e qualche effetto aprono il brano che trasmette al meglio il senso di alienazione e isolamento dal resto del mondo di Pink. Is There Anybody Out There? è una gemma che, nonostante i cori così imponenti ripetano ossessivamente quella frase facendoci sentire così piccoli e soli, ci lascia anche un senso di morbida rassegnazione, una sorta di dolce derivare. Il pianoforte di Richard Wright torna predominante in Nobody Home, una ballad che ripercorre la vita della rockstar attraverso alcune immagini tipiche. Nei momenti più sentiti e incisivi del cantato, vengono proposte delle parole che richiamano di nuovo l'elemento del telefono e del fatto che dall'altra parte non ci sarà nessuno a rispondere. Nonostante Pink abbia tutto, si accorge di come realmente non abbia nulla. In questo brano l'immagine di Syd Barrett torna ad aleggiare attorno ai Pink Floyd. Il tema della guerra torna a occupare la scena di The Wall con Vera: il nome del brano fa riferimento a Vera Lynn, artista dei primi del '900 le cui parole venivano cantate dai soldati durante la seconda guerra mondiale. I versi del bassista esprimono il risentimento del fatto che tutto era una bugia propagandistica: Nessuno ricorda Vera Lynn? Ricordo come lei disse che ci saremmo tutti incontrati di nuovo in un giorno soleggiato. La breve canzone è immediatamente collegata alla maestosa marcia Bring the Boys Back Home, poiché non tutti si sono incontrati nuovamente in un giorno di sole, essendo molti morti in guerra. Le sonorità forti e imponenti mettono in risalto l'importanza dei legami umani, della famiglia, del non lasciar nuovamente i bambini da soli. Sul finale della breve traccia sentiamo nuovamente alcuni voci miscelate: il maestro di Another Brick in the Wall (Part II), una voce di donna che ci chiede se ci sentiamo bene, la voce di qualcuno che bussa alla porta e dice che è tempo di andare, ovvero il manager che sta richiamando Pink, che è nel suo camerino, a salire sul palco. Il tutto culmina nel salendo con una reprise della frase Is there anybody out there?, che rievoca la solitudine interiore. Comfortably Numb, una delle maggiori punte della discografia dei Pink Floyd, scorre su un'orchestra leggera e morbida, sulle quali si alternano le voci di Gilmour nei ritornelli e di Waters nelle strofe. La canzone punta il dito contro la macchina dell'industria discografica, personificata nel dottore che droga Pink pur di costringerlo a salire sul palco per eseguire lo show. La rockstar è completamente in balia dei produttori e dei medici, degli attacchi di panico e nella totale assenza di controllo su se stesso che culmina in un grido come quello che apre la seconda strofa. Avete presente quegli assoli di chitarra eterni? Quelli che uno sente da sempre, che ha nei primi ricordi con i nostri genitori da piccolo, che ogni volta che li ascolta trova qualcosa di nuovo e di vecchio attraverso delle nitidi immagini? Personalmente con quello di Comfortably Numb è così ed immagino sia altrettanto per molti: il suono dell'emotività, della disperazione e di un intenso mood drammatico sfiorato da note acute e taglienti. The Show Must Go On è un breve intermezzo in cui Pink,  richiama il padre e la madre, pregandoli di portarlo a casa, in balia dell'incertezza di essere in grado di affrontare l'esibizione. La dolce supplica si conclude con la folla che acclama la rockstar sul palco. Le sonorità vengono completamente riprese dalla traccia con cui tutto inizia: In the Flesh con la sua progressione incalzante e trascinante racconta di un Pink in preda alla follia, che non si presenta più come se stesso ma come un dittatore che attacca tutti ed urla di mettere al muro ogni categoria: ebrei, neri e omosessuali, dicendo che se potesse fare a modo suo farebbe uccidere tutti. Run Like Hell non è altro che il proseguo dello show, in cui Pink incita tutti a muoversi ai tempi quadrati in quattro quarti come quelli della disco music. Quello che è stato fatto a lui nella scuola, la disumanizzazione e la spersonalizzazione, deve essere applicato a tutti, che devono essere omogeneamente identici a lui. La canzone si muove sulla chitarra pulita in delay di Gilmour e su dei tempi ben scanditi da una sezione ritmica estremamente precisa, che mette in risalto il basso pieno e profondo. Tornano i cori di The Show Must Go On, aperti dal conteggio Eins, zwei, drei, alle!, volutamente in tedesco a richiamare la dittatura nazista. Così viene lasciata la scena a Waiting for the Worms, che evoca nuovamente la figura dei vermi, già citata in Hey You come simbolo della rovina e della distruzione interiore, questa volta riproposta come rappresentazione di un gruppo filofascista in marcia su Londra, annunciato attraverso un megafono che incita a unirsi a loro. La canzone dal ritmo più rock e martellante è un insieme di leitmotiv del disco, che si conclude con la folla che ripete Hammer, Hammer. È la coscienza di Pink che si risveglia lentamente incitando a distruggere il muro. Successivamente con la brevissima Stop, Pink decide di fermarsi definitivamente, togliere la sua uniforme da dittatore e lasciare il palco per sempre sulle note delicate di un pianoforte che lasciano tutto in sospeso. Questa sensazione dura poco, mentre si sente il rumore di un chiavistello che apre la cella di Pink in attesa di giudizio, che viene chiamato di fronte alla corte che lo giudicherà. The Trial presenta una stranissima e originale composizione puramente orchestrale dallo stile teatrale, cantata da diversi registri vocali che impersonano altrettanti personaggi della storia di Pink in un dialogo che ripercorre le tappe della costruzione del muro: tornano il maestro della scuola, la soffocante madre iperprotettiva, la moglie che lo ha abbandonato e si aggiungono le figure dell'avvocato d'accusa e del giudice verme, simbolo della difficoltà di Pink a tornare un individuo sano di mente. Viene presa in analisi tutta la costruzione del muro e in fatto che Pink sia diventato come l'individuo che più odia, colui che ha compiuto un crimine contro se stesso e l'umanità, colui che è stato causa della morte del padre in guerra: un nazista. La canzone si conclude con la sentenza del giudice, che ordina a Pink di mettersi di fronte ai suoi pari e distruggere il muro che lui stesso ha creato, che lo ha reso colpevole di accettare e dimostrare le sue paure. L'ultima parte è un continuo crescendo, magistralmente orchestrato, arricchito di una pesante chitarra distorta e dalla folla che ripete ossessivamente Butta giù il muro!. Sul rumore delle macerie e del muro che crolla il disco si appresta a finire, verso gli ultimi due scarsi minuti.
Gli ultimi evocativi minuti del disco scorrono in un'atmosfera dolcissima, su delle parole che invece di esser cantate, sono pronunciate delicatamente come una poesia. Outside the Wall è la morale del disco: alla fine siamo essere umani ed apparteniamo a una realtà che non ci permette di isolarci da essa, poiché ci saranno sempre delle persone che combatteranno per il nostro bene, opponendo resistenza e sbattendo il loro cuore contro il muro della nostra follia, ovvero quello di chi si isola. Alcuni barcolleranno e cadranno, poiché è nella natura del genere umano chiudersi nelle paure, nel dolore e in se stessi. Tutto ciò è quello che succede a Pink e che potrebbe accadere a ognuno di noi: il percorso con la sentenza finale che punisce la rockstar per ciò che ha fatto deve essere d'esempio per tutti noi. Le ultime parole del disco sono Isn't this where... che si collegano direttamente a ... we came in ?. In questo verso, Pink si chiede se quello è lo stesso punto da cui è entrato nel muro. The Wall è un cerchio perfetto che inizia esattamente dove finisce, e si ripete nell'eternità, per lasciarci un'ulteriore morale nella morale: nonostante riusciamo a uscire dalla prigione che ci siamo creati, dobbiamo stare attenti e non dimenticare mai gli errori che abbiamo fatto, poiché un nuovo muro è sempre dietro l'angolo e per quanti ne vengono distrutti altrettanti ne vengono creati.
Quando si parla di produzione è inevitabile non pensare a un disco del genere: ogni suono è curato nel minimo dettaglio e le canzoni, tutte dal taglio breve, sono perfettamente collegate come da grande tradizione dei concept album. In The Wall vi è tutto, dalle grandi linee melodiche a tutta quella serie di effetti sonori e trovate narrative estremamente azzeccate, che ci permettono di immaginare e seguire il filo della storia, intuendo anche numerose cose. Vi è molto di evocativo e profondo, non solo da un punto di vista tematico ma anche da quello strettamente musicale ed emotivo. Il disco può essere considerato, per quanto riguarda il progresso musicale, il canto del cigno del gruppo, nonostante sia già esso meno innovativo dei suoi predecessori.
Quello che segue alla grande opera del gruppo britannico è storia: un tour con esibizioni dalle scenografie immense e mai viste, un film di Alan Parker con Bob Geldof nel ruolo di Pink ed infine un monumentale show di Roger Waters (dopo l'abbandono del gruppo) nel 1990 per celebrare la caduta del muro di Berlino.
Un'infinità di parole sono state spese su questo album e altrettante ve ne saranno nel tempo a venire. Tirare le somme di fronte a un disco del genere è tanto complesso quanto immediato, se non vi fosse la consapevolezza che stiamo parlando dei Pink Floyd. 

Tracce:
Disco 1
Lato A
1.  In the Flesh?
2. The Thin Ice
3. Another Brick in the Wall Part 1
4. The Happiest Days of Our Lives
5. Another Brick in the Wall Part 2
6.  Mother
Lato B
7. Goodbye Blue Sky
8. Empty Spaces
9. Young Lust (Roger Waters, David Gilmour)
10. One of My Turns
11. Don't Leave Me Now
12. Another Brick in the Wall Part 3
13. Goodbye Cruel World

Disco 2
Lato A
1. Hey You
2. Is There Anybody Out There?
3. Nobody Home
4. Vera
5. Bring the Boys Back Home
6. Comfortably Numb (David Gilmour, Roger Waters)
Lato B
7. The Show Must Go On
8. In the Flesh
9. Run Like Hell (David Gilmour, Roger Waters)
10. Waiting for the Worms
11. Stop
12. The Trial (Roger Waters, Bob Ezrin)
13. Outside the Wall 
Formazione:

- Roger Waters – voce (eccetto traccia 7 Disco 2) e   cori, basso elettrico, sintetizzatore EMS VCS3, chitarra  acustica in Mother e Vera, chitarra ritmica in Another Brick in the Wall Part 3
- David Gilmour – chitarra principale e acustica, voce (Disco 1: tracce 2, 5–7, 9 e 11; Disco 2: tracce 1–2, 6–7 e  10), cori e armonie vocali, basso elettrico, pedal steel guitar, sintetizzatore Prophet-5  e ARP Quadra, percussioni, rototoms in The Show Must Go On, clavinet in Empty Spaces
- Nick Mason – batteria, percussioni, tamburello in Another Brick in the Wall Part 2

Altri musicisti

- Richard Wright – organo Hammond, pianoforte acustico e elettrico, sintetizzatori  Prophet-5 e Minimoog,  clavinet, bass pedals in Don't Leave Me Now
- Bruce Johnston, Toni Tenille, Joe Chemay, Stan Farber, Jim Haas, John Joyce – cori
- Bob Ezrin – armonium, sintetizzatore ARP String, pianoforte in Mother, One of My Turns, Nobody Home e  The Show Must Go On – cori in Waiting for the Worms
- James Guthrie – piatti in The Happiest Days of Our Lives e Run Like Hell, sintetizzatore ARP Quadra in  Empty Spaces e In the Flesh
- Micheal Kamen – arrangiamenti per la New York Symphony Orchestra
- New York Opera – coro in Bring the Boys Back Home
- Lee Ritenour – chitarra ritmica ed acustica in Comfortably Numb
- Studenti della Islington Green School (organizzati da Alun Reshnaw) – coro in Another Brick in the Wall Part 2
- Fred Mandel – organo Hammond in In the Flesh? e In the Flesh
- Jeff Porcaro – batteria in Mother
- Bobbye Hall – bongos e congas in Run Like Hell
- Jon DiBlasi – chitarra classica in Is There Anybody Out There?
- Joe Porcaro, Blue Ocean e altri 34 batteristi di New York – rullante in Bring the Boys Back Home
- Harry Waters – voce del bambino in Goodbye Blue Sky
- Chris Fitzmorris – voce della segretaria in Young Lust
- Trudy Young – voce della groupie in One of My Turns

Chicago Transit Authority

I Chicago gruppo rock statunitense, formatosi nel 1967, sono una poderosa jazz-pop band, sette elementi padroni e virtuosi alfieri del proprio strumento, un'autentica “macchina da guerra” che ha prodotto nella golden era dei primi anni “70 i più bei dischi della nuova rock-fusion sull'onda dei Blood Sweet & Tears. Tre fiati su di una chitarra alla Hendrix, la voce del bianco Terry Kath che “più nera non si può” e i ritmi devastanti di Danny Seraphine non si erano mai visti e sentiti fino allora ed eccoli esordire con la sfida del doppio LP già dalla prima uscita discografica.
Chicago Transit Authority del 1969 (170 settimane nella classifica americana dei primi 100) è la consacrazione di una band coagulatasi nei campus anche sulle spinte delle aggregazioni e delle ribellioni studentesche nate proprio nella città dell'Illinois.
E' il tastierista Robert Lamm a tenere le redini della band, comporre e cantare buona parte dei brani anche se la stupenda cavalcata di Introduction è completo appannaggio di Kath e della sua orgogliosa voce “black”. La seguente Does Anybody Really Know What Time It Is? con Lamm al piano e voce solista si sfiora il capolavoro di costruzione sonora, grande jazz-song, grande tromba di Loughnane e cori perfetti; già consegnata alla storia. Ma è la seguente Beginnings sempre di Lamm che segnerà a fuoco il marchio dei Chicago: la sua voce calda accompagna i sinuosi fiati, la perfetta batteria e percussioni latine sostengono e accompagnano il basso di Cetera, tromba, trombone e sax si alternano agli assolo, i cori sottolineano la bellezza del brano. Question 67 and 68 è uno di quei brani epici sostenuti dalla limpidissima voce di Peter Cetera che conoscerà giustamente un successo personale per via di questa sua caratteristica vocalità; veramente un gioiello. Listen, il più corto dei brani, poco più di 3 minuti contro i 5/8 minuti degli altri è un'altra cavalcata di ottoni con il caratteristico basso arrembante. Poem 58 di Robert Lamm chiude quella che fu la seconda facciata dell'LP interamente dedicata al tastierista sia come composizioni che come voce solista e dove la chitarra distorta conduce la corsa per gli oltre otto minuti del brano.
Free Form Guitar che apre la terza facciata, dà libero sfogo all'immaginazione sonora del chitarrista Terry Kath con improvvisazioni sulla sei corde, rombi, gemiti, effetti larsen, scale ascendenti e discendenti sulla tastiera della sua Fender. Torniamo alla canzone pura con South California Purples, rock-blues di organo e basso con inserito un divertito omaggio ai Beatles di Walrus, anticipa il pezzo forte dell'album, I'm A Man, il brano di Steve Winwood composto a diciassette anni per i suoi Spencer Davis Group che qui riacquista una nuova sensazionale vita con percussioni trascinanti, la chitarra wah-wah, l'Hammond stratosferico e le tre voci (Lamm, Cetera, Kath) che si alternano alle strofe dando al brano una dimensione di unicità eterna. Per i posteri anche l'assolo di batteria Slingerland dell'italo-americano Danny. Quarta facciata e rumori di disordini studenteschi introducono Someday e la lunghissima Liberation quasi 15 minuti, brani live registrati nell'agosto del 1968 durante le assemble universitarie che certificano la bravura e la coesione della band anche dal vivo.
In seguito la locale compagnia di bus e metrò, appunto la CTA-Chicago Transit Auhority, unica proprietaria del moniker si arrabiò (BAH!) per l'utilizzo del proprio marchio e furono costretti ad abbreviare il nome della band semplicemente in Chicago.
L'intero lavoro è stato rimasterizzato nel 2002, completato con i minuti originali mancanti e le quattro facciate portate in unico cd che ci riconsegna intatta la perfezione del suono e l'affiatamento di questa band basilare per tutto il jazz-rock, il pop-funky, il pop-jazzy e la fusion che dilagherà negli anni “80 e “90.

Tracce:
Side 1
1.Introduction
2.Does anybody really know what time it is?
3.Beginnings

Side 2
4.Questions 67 and 68
5.Listen
6.Poem 58

Side 3
7.Free form guitar
8.South California purples
9.I'm a man

Side 4
10.Prologue, August 29, 1968
11.Someday (August 29, 1968)
12.Liberation

Formazione:
Peter Cetera - basso, voce, agogô
Terry Kath - chitarre, voce
Robert Lamm - piano, organo, tastiere, voce, maracas
Lee Loughnane - tromba, legnetti
James Pankow - trombone, campanaccio
Walter Parazaider - legni, tamburello basco
Danny Seraphine - batteria, percussioni