lunedì 9 ottobre 2017
Frank Zappa & the Mothers of Invention Freak out!
Frank Zappa nasce il 21 dicembre del 1940 a Baltimora, nel Maryland, da genitori di sangue italiano e francese.
Trasferitosi con la famiglia in California, a 12 anni inizia a interessarsi alle percussioni e nel 1956 suona già la batteria in un gruppo chiamato Ramblers. La sua educazione musicale giovanile, tuttavia, va molto oltre il canonico interesse per il rock’n’roll e il rhythm&blues (anche se sono Howlin’ Wolf, Muddy Waters, Johnny “Guitar” Watson e Clarence “Gatemouth” Brown ad accendergli la passione per la chitarra elettrica): il giovane Frank, infatti, coltiva grande interesse anche per la musica orchestrale, per le colonne sonore e per le composizioni d’avanguardia di Edgar Varèse.
Dopo un oscuro apprendistato come autore di canzoni e arrangiatore (e qualche 45 giri a suo nome finito subito nel dimenticatoio), nel 1964 fonda le Mothers Of Invention (con Ray Collins, Jim Black, Roy Estrada e Elliot Ingber): il primo disco della band, FREAK OUT!, esce due anni dopo lasciando a bocca aperta per la fantasiosa e anarchica mescolanza di rock, psichedelia, sperimentazione, doo wop, music hall e gag iconoclaste.
Anche i successivi dischi per la Verve sono un fuoco di artificio di creatività: ABSOLUTELY FREE (con la celebre “The duke of prunes”), WE’RE ONLY IN IT FOR THE MONEY (che mette alla berlina la controcultura e il “Sgt. Pepper” beatlesiano) e LUMPY GRAVY (con la partecipazione di una grande orchestra) ne confermano il talento incontenibile, enciclopedico, bizzarro e irriverente, alternando musica concreta a canzoncine apparentemente stupide, rumorismo beffardo a testi senza peli sulla lingua, scurrili, sarcastici, polemici e spesso a sfondo sessuale (i bersagli preferiti degli strali umoristici di Zappa, nell’arco di tutta la carriera, saranno i moralisti, gli integralisti religiosi, i politici e certa “American way of life”).
Dopo un nostalgico e divertito omaggio doo-wop pubblicato a nome degli “alter ego” Ruben and the Jets si consuma l’inevitabile divorzio dalla Verve e Zappa, in società con il manager Herb Cohen, fonda una propria etichetta che reca l’appropriato nome di Bizarre: è il momento dei dischi più ammirati e maturi del catalogo, con le ardite fusioni jazz rock di UNCLE MEAT e del capolavoro HOT RATS, il primo album senza le Mothers con cinque brani strumentali, una nuova band in cui spiccano lo straordinario violino di Jean-Luc Ponty e un cameo vocale dell’amico Captain Beefheart.
Di lì in poi, complice anche la libertà artistica finalmente conquistata, la discografia di Zappa inizia a frastagliarsi in una galassia di uscite che documentano una creatività sfrenata, affiancando alla produzione “ufficiale” pezzi e frammenti lasciati per strada e successivamente recuperati.
Cambiano spesso anche i compagni di ventura: gli ex Turtles Mark Volman e Howard Kaylan (che esordiscono in CHUNGA’S REVENGE) lo convincono momentaneamente (e con grande disappunto dei fan storici) a privilegiare il lato più leggero, canzonettistico e umoristico del suo repertorio; Ringo Starr fa una comparsa nel film 200 MOTELS (dove interpreta lo stesso Zappa) e nella relativa colonna sonora orchestrale. Dopo avere collaborato con John Lennon e Yoko Ono (nel concerto del giugno 1972 al Fillmore East documentato nell’album “Sometime in New York City”), il musicista italoamericano torna al jazz rock con WAKA/JAWAKA e THE GRAND WAZOO (con George Duke e Aynsley Dunbar a rinforzare la line-up). Poi, siglato un accordo con la Warner Bros, incassa con APOSTROPHE (‘), nel 1974, l’unico disco d’oro e da Top Ten in carriera (il brano trainante della raccolta è “Don’t eat the yellow snow”). Nel 1975, per un tour immortalato dal live BONGO FURY, si riunisce a lui Captain Beefheart, mentre l’anno successivo, con ZOOT ALLURES, esordisce una nuova formazione che include tra gli altri il nuovo batterista Terry Bozzio.
Malgrado le beghe legali che lo oppongono alla Warner, è un altro momento di grande slancio creativo: SHEIK YERBOUTI, nel 1979, è una delle sue opere più godibili ed effervescenti, con un altro 45 giri di buon successo, “Dancin’ fool”; il brano “Jewish princess” ne conferma però lo status di personaggio politicamente scorretto scatenando le ire della comunità ebraica. Poco dopo, i tre atti del “musical” JOE’S GARAGE ribadiscono la sua verve e l’abilità nello sberleffo.
Mentre i fan si deliziano con una serie di raccolte che montano assieme alcuni dei suoi migliori assoli di chitarra (Zappa è un “guitar hero” sui generis, e ama circondarsi di altri grandi talenti dello strumento come Adrian Belew, Steve Vai e Warren Cuccurullo), l’imprevedibile artista continua a mischiare le carte in tavola e nel 1982 strappa una imprevista hit grazie a “Valley Girl”, beffardo e scanzonato ritratto di ragazza californiana registrato assieme alla figlia Moon Unit (il singolo è incluso nell’album SHIP ARRIVING TOO LATE TO SAVE A DROWNING WITCH). Subito dopo, con uno di quei salti mortali che gli sono caratteristici, si rituffa nel suo grande amore, la musica colta ed orchestrale, collaborando prima con Kent Nagano e poi con Pierre Boulez, chiamato a dirigere una sua composizione intitolata THE PERFECT STRANGER.
Dopo un curioso esperimento di musica elettronica-barocca (FRANCESCO ZAPPA, ispirato alle composizioni di un omonimo musicista milanese del XVIII secolo), in THEM OR US fa esordire a suo fianco il figlio Dweezil, lui pure virtuoso della chitarra; JAZZ FROM HELL (1986) vede invece Frank cimentarsi in solitaria e destreggiarsi al sintetizzatore Synclavier. Mentre si dedica al recupero di nastri live ricavati dal suo sterminato archivio (con la serie YOU CAN’T DO THAT ON STAGE ANYMORE), Zappa progetta un ultimo colpo di scena memorabile: THE YELLOW SHARK, splendido live in bilico tra pagine storiche e nuove composizioni inciso con l’aiuto di una formazione tedesca di musica classica e contemporanea, l’Ensemble Modern.
A quel punto Zappa è già malato e sofferente per un tumore alla prostata che lo costringe a sedute di chemioterapia; la morte lo coglie il 4 dicembre 1993, mentre sta lavorando a un nuovo progetto, CIVILIZATION PHAZE III, basato in parte sul recupero di nastri risalenti alle sessions dell’antico LUMPY GRAVY.
Dopo la sua morte si riversano sul mercato una montagna di live, compilation di rarità e ristampe, curate dalla Rykodisc (cui Zappa aveva ceduto la licenza del catalogo) e dalla famiglia del musicista.
Frank Zappa & the Mothers of Invention
Freak out! (1966)
Senz'altro, fin dall'inizio della sua realizzazione, "Freak Out!" era già destinato a rimanere tra gli accadimenti più sconvolgenti nello scenario musicale della fine degli anni sessanta. La sua indubitabile carica rivoluzionaria ed innovativa avrebbe preparato il terreno per una nuova fase creativa nell'universo musicale giovanile contemporaneo. Questo incredibile debutto discografico è un disco volutamente incoerente, disomogeneo, formato da più realtà sonore dettate essenzialmente dal comportamento musicale dei protagonisti coinvolti. Accanto a delle composizioni scritte sotto forma di canzoni, compaiono audio manifestazioni di caos, anarchia, rumore, frenesia ed incondizionata creatività. Sembra quasi sancire che non è più tempo per la semplice musica di intrattenimento fine a se stessa. Questa sostanziale celebrazione della deviazione dalla norma è quanto di più coscientemente rivoluzionario si potesse proporre in un paese come gli USA da troppo tempo soffocato da tradizioni imposte e, forse, non sempre profondamente e completamente comprese dalle generazioni più giovani, un paese alle prese con le proprie contraddizioni interne necessariamente a confronto con la complessa situazione sociale e politica di un mondo - già allora - in veloce cambiamento.
E quindi, il suono di questa deviazione dalla norma si concretizza e si manifesta con chitarre distorte, vibrafoni, kazoos e voci stonate, strumenti quasi sempre inseriti in contesti simili alle banali canzoncine contemporanee ma che insieme raccontano un'altra storia, un nuovo orizzonte musicale grazie ad inequivocabili gesti sonori intransigenti. Ma le "stupid songs" non possono reggere molto ed arginare la vera voglia di sperimentazione del collettivo Mothers diretto dalla Mother Superior Frank Zappa e dopo le prime canzoni il Mostro si toglie la maschera e svela il suo vero volto con caustici collages di bizzarrie musicali e di provocazioni vocali che non avrebbe mai potuto essere pubblicato attraverso la discografia ufficiale.
Si manifesta il vero e proprio nuovo universo sonoro parallelo di quei tempi nutrito dallo spirito libero di un'estemporanea creatività e sapientemente guidato e decodificato in forma musicale/sonora da un attento direttore dei lavori, in grado di confezionare un vero e proprio inno alla libertà di espressione collettiva.
Questo album lo dedico al mio caro amico Alfredo, è grazie a lui che conobbi Frank.
Tracklist:
“Hungry freaks, daddy”
“Ain't got no heart”
“Who are the brain police?”
“Go cry on somebody else's shoulder”
“Motherly love”
“How could I be such a fool”
“Wowie zowie”
“You didn't try to call me”
“Any way the wind blows”
“I'm not satisfied”
“You're probably wondering why I'm here”
“Trouble every day”
“Help, I'm a rock”
“It can't happen here”
“The return of the son of Monster Magnet”
Formazione
Frank Zappa - chitarra, voce
Jimmy Carl Black - percussioni, batteria, voce
Ray Collins - voce solista, armonica, cimbali a mano, tamburello, forcina, pinzette
Roy Estrada - basso, guitarrón, voce soprana
Elliot Ingber - chitarra solista e ritmica
Ospiti
Gene Estes - percussioni
Eugene Di Novi - piano
Plas Johnson - sassofono, flauto
John Rotella - clarinetto, sax
David Anderle - violino
Benjamin Barrett - violoncello
Edwin V. Beach - violoncello
Paul Bergstrom - violoncello
Virgil Evans - tromba
Kim Fowley - hypophone
Carl Franzoni - voce
Roy Caton - copista
John Johnson - tuba
Carol Kaye - chitarra a 12 corde
Raymond Kelley - violoncello
Arthur Maebe - corno, tuba
George Price - corno
Kurt Reher - violoncello
Emmet Sargeant - violoncello
Joseph Saxon - violoncello
Neil LeVang - chitarra
Dave Wells - trombone
Kenneth Watson - percussioni
Vito Paulekas - voce, percussioni
Ospiti non accreditati
Jeannie Vassoir - voce di Suzy Creamcheese
Motorhead Sherwood - rumori
Paul Butterfield - voce
Mac Rebennack - piano
Les McCann - piano
Chicago Transit Auhority
I
Chicago gruppo rock statunitense, formatosi nel 1967, sono una
poderosa jazz-pop band, sette elementi padroni e virtuosi alfieri del
proprio strumento, un'autentica “macchina da guerra” che ha
prodotto nella golden era dei primi anni “70 i più bei dischi
della nuova rock-fusion sull'onda dei Blood Sweet & Tears. Tre
fiati su di una chitarra alla Hendrix, la voce del bianco Terry Kath
che “più nera non si può” e i ritmi devastanti di Danny
Seraphine non si erano mai visti e sentiti fino allora ed eccoli
esordire con la sfida del doppio LP già dalla prima uscita
discografica.
Chicago
Transit Authority del 1969 (170 settimane nella classifica americana
dei primi 100) è la consacrazione di una band coagulatasi nei campus
anche sulle spinte delle aggregazioni e delle ribellioni studentesche
nate proprio nella città dell'Illinois.
E'
il tastierista Robert Lamm a tenere le redini della band, comporre e
cantare buona parte dei brani anche se la stupenda cavalcata di
Introduction è completo appannaggio di Kath e della sua orgogliosa
voce “black”. La seguente Does Anybody Really Know What Time It
Is? con Lamm al piano e voce solista si sfiora il capolavoro di
costruzione sonora, grande jazz-song, grande tromba di Loughnane e
cori perfetti; già consegnata alla storia. Ma è la seguente
Beginnings sempre di Lamm che segnerà a fuoco il marchio dei
Chicago: la sua voce calda accompagna i sinuosi fiati, la perfetta
batteria e percussioni latine sostengono e accompagnano il basso di
Cetera, tromba, trombone e sax si alternano agli assolo, i cori
sottolineano la bellezza del brano. Question 67 and 68 è uno di quei
brani epici sostenuti dalla limpidissima voce di Peter Cetera che
conoscerà giustamente un successo personale per via di questa sua
caratteristica vocalità; veramente un gioiello. Listen, il più
corto dei brani, poco più di 3 minuti contro i 5/8 minuti degli
altri è un'altra cavalcata di ottoni con il caratteristico basso
arrembante. Poem 58 di Robert Lamm chiude quella che fu la seconda
facciata dell'LP interamente dedicata al tastierista sia come
composizioni che come voce solista e dove la chitarra distorta
conduce la corsa per gli oltre otto minuti del brano.
Free
Form Guitar che apre la terza facciata, dà libero sfogo
all'immaginazione sonora del chitarrista Terry Kath con
improvvisazioni sulla sei corde, rombi, gemiti, effetti larsen, scale
ascendenti e discendenti sulla tastiera della sua Fender. Torniamo
alla canzone pura con South California Purples, rock-blues di organo
e basso con inserito un divertito omaggio ai Beatles di Walrus,
anticipa il pezzo forte dell'album, I'm A Man, il brano di Steve
Winwood composto a diciassette anni per i suoi Spencer Davis Group
che qui riacquista una nuova sensazionale vita con percussioni
trascinanti, la chitarra wah-wah, l'Hammond stratosferico e le tre
voci (Lamm, Cetera, Kath) che si alternano alle strofe dando al brano
una dimensione di unicità eterna. Per i posteri anche l'assolo di
batteria Slingerland dell'italo-americano Danny. Quarta facciata e
rumori di disordini studenteschi introducono Someday e la lunghissima
Liberation quasi 15 minuti, brani live registrati nell'agosto del
1968 durante le assemble universitarie che certificano la bravura e
la coesione della band anche dal vivo.
In
seguito la locale compagnia di bus e metrò, appunto la CTA-Chicago
Transit Auhority, unica proprietaria del moniker si arrabiò (BAH!)
per l'utilizzo del proprio marchio e furono costretti ad abbreviare
il nome della band semplicemente in Chicago.
L'intero
lavoro è stato rimasterizzato nel 2002, completato con i minuti
originali mancanti e le quattro facciate portate in unico cd che ci
riconsegna intatta la perfezione del suono e l'affiatamento di questa
band basilare per tutto il jazz-rock, il pop-funky, il pop-jazzy e la
fusion che dilagherà negli anni “80 e “90.
Tracce:
Side
1
1.Introduction
2.Does
anybody really know what time it is?
3.Beginnings
Side
2
4.Questions
67 and 68
5.Listen
6.Poem
58
Side
3
7.Free
form guitar
8.South
California purples
9.I'm
a man
Side
4
10.Prologue,
August 29, 1968
11.Someday
(August 29, 1968)
12.Liberation
Formazione:
Peter
Cetera - basso, voce, agogô
Terry
Kath - chitarre, voce
Robert
Lamm - piano, organo, tastiere, voce, maracas
Lee
Loughnane - tromba, legnetti
James
Pankow - trombone, campanaccio
Walter
Parazaider - legni, tamburello basco
Danny
Seraphine - batteria, percussioni
domenica 8 ottobre 2017
Mike Bloomfield / Al Kooper / Steve Stills – Super Session
Super Session è un disco
storico; l’incontro magico tra 3 figure di spicco della scena
musicale degli anni sessanta. Mike Bloomfield, una delle grandi
chitarre (da Paul Butterfield a Bob Dylan) morto nei primi anni
ottanta per un’overdose; Al Kooper, uno dei migliori tastieristi
dell’epoca e Steve Stills (Buffalo Springfield e poi CSN&Y).
Al
Kooper ha la bella pensata nel maggio 1968 di convocare in uno studio
di Los Angeles Mike Bloomfield e una sezione ritmica composta da
Harvey Brooks al basso e Eddie Hoh alla batteria. Al e Mike si
conoscono bene, avendo condiviso la rivoluzione dylaniana, e si
completano a vicenda.
L’idea
è sostanzialmente quella di jammare, come da sempre si usa nel jazz,
su temi propri o altrui e vedere l’effetto che fa.
L’album,
diviso in due parti, è capace di racchiudere spettacolari Blues Jam
miscelate a calde folgorazioni prog e rivisitazioni dylaniane. La
prima facciata immortala un duetto tra Bloomfield e Kooper (che
assieme pubblicheranno anche due dischi di concerti ai Fillmore di
San Francisco e New York) e carpisce al meglio l’animo blues dei
personaggi. In Albert’s Shuffle, l’organo s’incontra
alla perfezione con la Gibson pulita e poco distorta che procede
ispirata nei quasi sette minuti di registrazione. Nel resto del
progetto, più degli slalom di Albert’s Shuffle e Really
convincono le cover: Stop (da Howard Tate) e Man’s
Temptation (da Curtis Mayfield), nella prima è l’organo a
dettare il ritmo. Un potente vibrato ed una batteria semplice ma
attenta (Eddie Hoh) riescono a creare un effetto terribilmente
penetrante. Kooper alza i toni in un solo accattivante prima di
lasciar rientrare una chitarra ormai galvanizzata. La seconda alla
Blood, Sweat & Tears. Pezzo forte è il più lungo (9’13”)
His Holy Modal Majesty (Al Kooper, Mike Bloomfield). Le
sonorità si distanziano profondamente da quelle blueseggianti
d’apertura ed approdano in una dimensione prog-jazz.
Ottimi
i risultati di questo primo giorno, ma in quello seguente Bloomfield
non si presenta, che fare? La sala è pagata e Kooper convoca al volo
un altro chitarrista, Stephen Stills, reduce dai Buffalo Springfield,
prossimo ad unirsi con Crosby e Nash. Nella session più famosa di
sempre i tre protagonisti non furono mai tutti insieme nella medesima
stanza. Lo stacco è subito netto con la splendida vivacità di It
Takes A Lot To Laugh, It Takes A Train To Cry (omaggio doveroso a
Bob Dylan) e le distanze si accentuano con l’epopea acida di Season
Of The Witch (da Donovan) e gli hendrixismi dello standard blues
You Don’t Love Me. Il disco si conclude con Harvey’s
Tune.
Un
disco che non può assolutamente mancare.
Tracce:
1.
Albert's Shuffle (Al Kooper, Mike Bloomfield)
2.
Stop (Jerry Ragovoy, Mort Shuman)
3.
Man's Temptation (Curtis Mayfield)
4. His
Holy Modal Majesty (Al Kooper, Mike Bloomfield)
5.
Really (Al Kooper, Mike Bloomfield)
6. It
Takes a Lot to Laugh, It Takes a Train to Cry (Bob Dylan)
7.
Season Of The Witch (Donovan)
8. You
Don't Love Me (Willie Cobb)
9.
Harvey's Tune (Harvey Brooks)
Tracce
bonus (CD del 2003 - Legacy Records)
1.
Albert Shuffle (inedito, mix without horns)
2.
Season of the Witch (inedito, mix without horns)
3.
Blues for Nothing (studio outtake)
4. Fat
Grey Cloud (inedito, live)
Musicisti
- Al
Kooper - pianoforte, organo, Organo ondioline, chitarra 12 corde,
chitarra elettrica, voce
- Al
Kooper - arrangiamenti strumenti a fiato (horns), produttore
- Mike
Bloomfield - chitarra elettrica (brani A1, A2, A3, A4, A5 & A6)
-
Stephen Stills - chitarra (brani B1, B2, B3 & B4)
-
Harvey Brooks - basso
-
Eddie Hoh - batteria
- Joey
Scott - arrangiamenti strumenti a fiato (horns)
Musicisti
nel brano Fat Grey Cloud
- Al
Kooper - organo, armonica
- Mike
Bloomfield - chitarra, voce
-
Roosevelt Gook - pianoforte
- John
Kahn - basso
- Skip
Procop - batteria
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